(da un’edizione della “Valle del Tirino” degli anni ’70)

  

g5337Da tre strade provinciali, allora come oggi si accede a questo bel posto che è Capestrano.

Allora come oggi, il forestiero che vi giunge trova ad accoglierlo una piazza vasta, la bella chiesa parrocchiale, lo storico Castello medioevale, oggi in corso di restauro, il convento, palazzi, tanto quanto può riportarti indietro nel tempo.

Ma allora perché c’era una volta? Proviamo un po’ a riportarci indietro in quel tempo per poter rivivere insieme nel ricordo e far conoscere ai giovani il vivere capestranese di mezzo secolo fa.

Una popolazione di più di 4000 abitanti, famiglie patriarcali – c’erano le famiglie di tutte le autorità – c’era la casa del pretore, del notaio, dell’avvocato dove non mancava mai l’andirivieni di forestieri, arrivavano per chiedere un consiglio, per un’udienza in pretura. Scendevano dai paesi circonvicini a cavallo di un mulo dal basto del quale pendeva sempre una gonfia bisaccia dalla quale s’intravedeva una testa di capretto o di una coppia di polli.

Capestrano-mandamento-centro di interessi, era la metropoli di questa parte territoriale abruzzese. Esisteva il vicinato ch’era una grande famiglia col quale si dividevano gioie e dolori. Il paese quasi prettamente agricolo, viveva insieme nell’arco dell’anno le diverse fasi del lavoro. Date memorabili. La trebbiatura svolta nelle aie. Una treccia di cavalli che trottano per ore battendo gli zoccoli sui covoni di grano circolarmente posati sull’aia.

Sotto i raggi focosi del solleleone, bagnati dal sudore, uomini e donne, intonavano canzoni e tra un bicchiere, un biscotto, e una pera “mezza” si attendeva l’arrivo della famosa canestra con “i maccarun d’l’ara” (berciatelli al ragù di carne di castrato) era una festa, era ristoro, al tramonto, quando il grano ormai pulito e pronto da mettere nei sacchi, arrivava Fra Felice con la inseparabile scatoletta (tabaccheria) di tabacco da naso; due starnuti, altro bicchiere in compagnia del frate, un’altra pera, qualche barzelletta, due risate e poi l’offerta di grano per il convento. Fra tante altre degne di ricordo, c’era il racconto del granoturco: montagne di pannocchie sull’aia e altro grande raduno serale per la pulitura di esse.

Gruppi di giovani si alternavano nelle diverse aie per trovare la pannocchia rossa ed avere così il permesso di dare un bacio a loro scelta. E poi canti in coro che echeggiavano fin giù nella Valle per unirsi nella notte al mormorio prodotto dallo scorrere lento delle acque del Tirino e ancora danze sull’aia al suon di un organetto o chitarra e mandolino; tutto era festa, tutto era armonia.

Nei grandi giorni festivi, i nostri padri, indossando il sobrio e scuro vestito delle occasioni, dopo aver ascoltato la S. Messa, facevano “rolla” in piazza per la chiacchierata e poi da “Niculin Frscion” c’era il “marro” seduto davanti ad un tavolo, tra un bicchiere di buon vino genuino, una fetta di marro e un “tre ssette”, trascorrevano qualche ora felici e soddisfatti.

L’evoluzione forse troppo rapida del dopoguerra, ha portato alla trasformazione della società. Interessi, corsa verso fonti di guadagni più sicuri, più redditizi, hanno portato all’evasione, all’abbandono. Il lavoro dei campi oggi è di pochi e non più come allora, ma modernizzato, meccanizzato per stare al passo coi tempi. Oggi c’è benessere, comodità, la vita è migliore. Si ha tutto ma non si ha niente, si vive tra la gente ma si è soli. Cosa manca?...

Forse nella fretta di arrivare si son persi quei valori morali, quello spirito di affetto e amicizia che ci teneva uniti e allora perché non ritrovarci? Scuotiamoci da questa apatia. Ci sono segni di nostalgia, desiderio di voler tornare per molti che se n’erano andati. Uniamoci tutti per ricostruire Capestrano del 2000 e poter dire ancora con orgoglio, con soddisfazione: in quella armoniosa e ridente collina adiacente al fiume Tirino, c’è quel bel paese che si chiama Capestrano.

 

di Amicangioli Teresa